28 marzo 2012

Le avventure di Platone: la casa

Si trattava di nuovo di una questione di principio. Che Giuliano promettesse di offrirsi volontario il sabato mattina, per uscire interrogato sull'arte degli Egizi, e poi restasse a casa influenzato senza dire niente a nessuno, a Platone e a Firmino dava un fastidio bestia.

Firmino, di suo, aveva sempre un piano B. «Non funziona. Stavolta Firmino non funziona neanche se piangi. Finisce come quando ti hanno preso al corso di arte circense. Ti sei stancato dopo neanche mezz'ora. La prof. ti manderà a posto ancora prima che tu le faccia la proposta». Firmino s'era preparato l'analisi di Guerre Stellari, usando le categorie del figlio di un suo amico, che tutti dicevano fosse un bimbo prodigio. Le categorie erano tantissime, e Firmino faceva più fatica a ricordarsi quelle, che la trama della trilogia col nome italiano unita alla trama della trilogia col nome inglese. Aveva intenzione di spiegare in italiano Star Wars e in inglese Guerre Stellari, e divenire esempio vivente di colui che concilia oggetto e linguaggio, e che fa della diversità d'espressione un'arma pacifista.


 Platone lo guardò negli occhi, due palline roteanti in cui si rifletteva Firmino accanto a Mila, nella stessa fiammella a due punte, come quel tale nell'inferno di Dante. «Hai gli occhi che sculettano amico. Collirio? Ho i monodose. Se hai bisogno non hai che da chiedere». Platone fece segno di no con la testa. L'intervallo stava per scadere e di Egitto ancora non sapevano niente di niente.
«Ti confido, che comincio a figurarmi il peggio. Cosa facciamo?» Firmino non pensava che Platone, sotto la barba precoce, fosse uno di quei fifoni che danno la meglio quando c'è aria di brutto voto in arrivo. «Platone, suvvia, e che sarà mai? Vai fuori, fai scena muta, chiedi scusa. Alla peggio ti mette tre. Ti rifai con lo scritto sugli antichi greci». «Ragazzo tu non hai capito. Tu non hai capito niente. Noi saremo chiamati a parlare di disegni sulla roccia, di incisioni, di geroglifici: l'omino con la lancia, il serpentello, il leone ben seduto sui gomiti convessi. E fin qui tutto bene. Ma poi ci verrà chiesto dei numeri. I numeri!». «Le date? In effetti, lì sì che ci vuole memoria». «Ma che date e date, parlo dei numeri egiziani, quelli disegnati con strane stanghette triangolari, bandierine da panino dolce, parentesi a forma di freccetta. Inguardabili. Sembrano virgolette e sono numeri. E lo sai cosa succede ai numeri che sembrano disegni e...» Firmino non sapeva niente di niente, doveva passare al bagno e camminava all'indietro in direzione di quello dei maschi facendo attenzione che Platone non si accorgesse del tranello. La campanella suonò, Platone sussultò e tutto il lato sinistro, quello col cuore meglio radicato, cominciò a tremare. «Tu aspettami qui. Faccio in un attimo». Firmino s'infilò in bagno, fece più in fretta che poté. Ma alla pipì non si comanda, e a lui non veniva perché fuori sentiva tutto un rumore di sonagli. Era quell'imbecille di Platone che tremava con la catenella d'acciaio e ciondoli di cocco che gli aveva regalato una sua zia di Taranto, quando era stato in vacanza in Magna Grecia, in coordinato col braccialetto. «Si usano tanto da noi. Eddai, fai contenta la zia, provatela» e Platone era rimasto fregato, con polsi e collo incatenati da un gioiello il cui stile era, se non discutibile, quanto meno esotico.

All'improvviso in bagno e fuori piombò il silenzio. La porta dell'aula era chiusa a chiave, Platone era sparito dal corridoio. Firmino si guardò intorno. Salì al secondo piano, passò dietro al chiosco ambulante dei panini, si infilò in aula di tecnica. I tavoli con il ripiano obliquo erano in ordine, uno dietro l'altro, in armoniche file da tre. Gli vibrò la tasca sinistra. «Stiamo giocando a Pes, ti aspettiamo in aula di informatica». Firmino ripose il telefono, salì un'altra rampa di scale e raggiunse il sottotetto. L'aula di informatica la usavano solo i bidelli come ripostiglio. C'era un computer fisso, con lo schermo che ronzava. Giuliano in condizioni di salute scoraggianti, pareva nascondersi lì dall'anno dell'Egira. Platone tremava sempre meno tranne che gli era venuto un tic con l'indice che gli faceva schiacciare il tasto x fuori tempo, tanto che aveva già aggiunto il quinto portiere in formazione e non sapeva come levarlo dalla rosa. «Giuliano, traditore. Non era influenza.» Giuliano sorrise. «Firmino, pensavi che mi sarei davvero fatto interrogare sui geroglifici? Ossia sui nomi dei disegni. Non delle cose capisci? Dare risposte giuste, e non per forza vere, su nomi di disegni che nemmeno sappiamo se raffigurano davvero cose. Ahh. Non è cosa per me vecchio mio». Firmino non volle ribattere, era stanco. Si sedette a terra e consigliò a Platone di comprare un mediano slavo, «sono i più affidabili» assicurò. Poi si chiese che cavolo avesse raccontato a casa Giuliano e come avesse ingannato le maestre con la storia dell'influenza. «Firmino, smettila di arrovellarti. Ti conosco e so a cosa stai pensando». Firmino non fiatò. «Mia madre mi ha firmato tre giustificazioni in bianco. Per quando non è a casa, come adesso per esempio, che sta a Lampedusa» «Tartarughe» «Sì, bravo. Quindi me la sono giocata, tutto qua». «E da quando sei qui?» «Un paio di settimane. Da quando lei è partita e s'è portata via il portatile. Prima venivo su solo dopo la scuola ma poi, ho pensato che portarmi pigiama e spazzolino mi avrebbe permesso d'essere in orario, di mattina intendo». «E non ti manca casa tua?» «Firmino! La casa è mia mamma! Quando torna, torno da lei e intanto... Ehi! Non puoi Platone, che razza di schema è questo?» Platone aveva approfittato della distrazione dell'amico, disponendo i propri giocatori, di cui un terzo portieri, a forma di sfera. Si muovevano coordinati, senza che il diametro potesse variare di un solo millimetro. Bisognava solo stare a vedere se i mediani slavi avessero gradito la scelta inconsueta.

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