31 dicembre 2010

Il ghiaccio di fuori

Mai stata in Polonia prima d'ora.
Rispondo alle lenti appannate di un ragazzo interamente coperto da lana e giaccone.
Non si capisce dove finisce la lana, se in testa o sul collo, o dove inizia il giaccone, sotto il mento o intorno ai pantaloni scuri.
Facciamo insieme il biglietto per un bus che credo porti in città. Lui deve scendere a Piazza Inwalidow. Non è nella mia carta turistica e minima. Io so di dover andare a sud, ma non so dove si trova l'areoporto di Belice. San Giovanni Paolo II.
Il vento ti taglia il respiro che tieni da conto per quando (si pensa sempre molto presto) potresti averne bisogno per scaldarti le mani o le dita dei piedi.
La macchinetta non parla inglese.
Nemmeno l'autista del bus.
E nemmeno io.
Faccio tre biglietti da tre zloty, mi sembra un buon compromesso. Ne faccio anche due da due e cinquanta. Meglio non buttare via nulla, né fare sprecare minuti preziosi ad un bus che talvolta pare scalare neve e lastre di ghiaccio senza alcuna fatica.

Stiamo nel Kazimierz, ma ci arrivo dopo aver sbagliato un paio di fermate e aver preso un tram grazie al consiglio di un polacco gentile. Le sinagoghe non si vedono e nemmeno le case l'erba o le strade. Nulla si distingue dallo sfondo: da terra fino al cielo tutto è bianco e gelido. Per terra le lastre di ghiaccio ti obbligano ad una lentezza che col passare dei giorni si prende metà delle tue gambe e va avanti da sé. La luce la mattina prova inutilmente a consolare una città entusiasta del suo stato.



Cracovia brulica di persone serene. Mi chiedo quanto un ambiente possa modificarti dentro e le risposte me le dò da me. La gente si accalca nei posti e beve té caldo che diviene birra col passare delle ore. Il buio ti acchiappa alle quattro del pomeriggio ma la vita prosegue vivace come fosse sempre mezzogiorno e trenta. Nella Piazza Grande di Santa Maria il suono dello xilofono dura finché il freddo non vince la passione e il vin brulé scuro riflette i colori dell'ambra.

Auschwitz e Birkenau hanno sempre lo stesso colore. La temperatura in picchiata segue leggi d'eccezione. Il bilanciamento del bianco sballa per quel bianco e grigio e i binari scuri ma ricoperti di bianco. Nevica ora, cristalli. Quanto è perfetta, ti chiedi, la formula geometrica del male. La mia idea di quei luoghi non viene rinfozata dalla fisicità delle coperte tessute di capelli che puzzano di cenere. Birkenau regala quanto più male possa riempire un campo di neve senza frontiere.
Infinito.
Mi sembra di esserci stata mille volte, lì, in quei corridoi di filo spinato e nulla.
Il concetto era chiaro anche prima, la concretezza questa volta non aiuta, comprova. Ma non avevo dubbi a riguardo.
Ti chiedi cosa avresti pensato tu se ti avessero costruito una distesa del genere accanto. Per fare che cosa. Che cosa. Mi chiedo quanta paura avrei avuto a chiedermelo. E mando giù un caffé nero, lungo e acquoso che mi riscalda le tempie e sblocca la testa inceppata su quel filo di lama.

Cammino da tre ore e ho i piedi radenti alla neve, le dita non le sento quasi più.Il freddo punge e gela il sangue. Non si arriva a meno tredici. Siamo qualche grado sotto.

I corvi di Cracovia invece non se ne curano. A migliaia affollano quello che credo debba essere un parco e che la neve uniforma senza svelare.
Dal mio letto la sera guardo verso la finestrella a soffietto che stringe e incornicia i miei occhi senza farsi ombra da sola. Il cielo chiaro nonostante il buio è solcato dal fumo dei camini.

E mi addormento, col tetto spiovente e il lamento d'intorno, credendomi a casa.

1 commento:

manfred ha detto...

la nostra casa è dove siamo, e saremo.